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Let’s go.

L’ultima volta che ho scritto qui era il 2018. Che, solo di recente, con l’aiuto di quella cosa bellissima e un po’ stronza che è il senno di poi, ho scoperto essere stato un anno veramente ricco di passi fondamentali ed esperienze magnifiche.

Ci tornerei, nel 2018, tutto sommato. Se non altro per dar retta alla me stessa che aveva avuto il coraggio e la forza di prendere una certa decisione e dirle di non cedere, di portarla avanti fino in fondo, ché aveva proprio ragione.

E invece.

So che non ero pronta, che non era ancora il momento, forse.

Che poi è sempre il forse che ci frega, no? Ci tiene appesi per i capelli, doloranti, in bilico, a metà tra la voglia di scoprire fino a che punto possa resistere la pelle prima di strapparsi e il bisogno di lasciar andare quel dolore, per tornare a camminare sulle proprie gambe.

È quello il guaio, l’eterno conflitto tra voglia e bisogno, ci avete mai fatto caso? Non coincidono quasi mai e chi lo decide quale dei due sia più importante?

È successo che tutto quello che è successo in questi anni lontana dal mio pezzetto di WordPress sia stato raccontato perfettamente da Hayley Williams nella sua “Dead Horse”. Ma non lo dico per dire, è un riassunto fedele, parola per parola, dai sogni ricorrenti ai capelli blu, ai sensi di colpa, al numero di anni in cui è andata avanti la situazione, all’affannarsi nel tentativo di far funzionare cose irrimediabilmente rotte.

Quindi non ne parlerò, ché l’ha già fatto lei al posto mio ed è tutto piuttosto chiaro, fanculo le metafore.

È poi successo che questo anno da film post-apocalittico di terz’ordine ha spazzato via ogni singolo castello di carta io abbia costruito, dal primo giorno (letteralmente. Happy birthday to me.) e per tutti quelli successivi, almeno fino a qui. E capite bene che un po’ mi abbia fatto passare la voglia di provarci ancora, eh, ma (purtroppo o per fortuna, non mi è ancora chiaro) non riesco a far tacere quella vocina minuscola che, in una stanza ben protetta dentro la mia testa, ancora continua a cantare.

E se c’è una cosa che ho imparato su di me è che “when I got the music I got a place to go”, quindi… Let’s go, I guess.

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A volte ritornano (ma solo per spam).

Non farò neppure finta di voler scrivere un post sensato o di voler riprendere in mano questo povero blog abbandonato a se stesso, perché tanto è ormai chiaro a tutti che io stia attraversando un momento della vita in cui scrivere delle mie faccende su uno spazio virtuale non sia più nelle mie corde. Per un milione di motivi  e per nessuno, forse.
Semplicemente, sono proiettata verso orizzonti diversi.

Uno di questi è la musica, come da sempre.
Motivo che mi ha portata qui, oggi, per spammare senza vergogna anche su WordPress il primo video ufficiale della mia band di cui avevo già scritto tempo fa, gli ellis’.

Il video in sè è molto semplice, lo abbiamo girato in una sera caldissima di agosto e non racconta nessuna storia. Ci siamo noi che fingiamo serietà, un sacco di palloncini e tanto movimento. Punto.
Ci hanno un po’ costretti a farlo gli omini fantastici che stanno dietro a quella realtà ormai storica che è la Scatti Vorticosi Records, un’etichetta indipendente con base a Torino, che crede un sacco nella musica nuova e la sostiene come può.
Abbiamo registrato un piccolo EP di prossima uscita che avrà il loro marchio in copertina e insomma è una bella avventura e ci stiamo divertendo,

Eccolo qui, se ci piaciate/commentate/condividete ci fate un bel regalo!

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You made me a monster cause you’re a monster.

Mi ero ripromessa di bere meno caffè, ma poi la Primavera ha deciso di fare la diva tardando ancora un po’ e mi sono ritrovata a galleggiare in questa settimana di grigi intensi e pioggia timida, e allora niente. Non si possono affrontare giornate così poetiche senza una tazza di caffè a scaldare le dita, si sa.
Ho trascorso gli ultimi sei mesi a lamentarmi della vita da pendolare e adesso che me ne sono liberata per qualche giorno inizio a sentirne la mancanza. Sarà che, da lontano, tutto sembra più semplice, meno definito, meno minaccioso.
Ho un sacco di storie colorate che mi ballano in testa, ma le dita sono ancora troppo pigre per sceglierne una e chiederle di insegnarmi i passi per buttarmi in pista.
Così me ne sto qui a guardarle volteggiare, mentre si intrecciano in racconti impossibili e diventano confuse, intangibili, fino a sparire.
Seduta a guardare il cielo che cade, mi aspetto.

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Lo so che…

…questo post dovrebbe iniziare con una serie di improbabili scuse per giustificare la mia assenza degli ultimi millemila mesi, ma in realtà non me ne frega niente, quindi opterò per un atteggiamento vago e disinvolto, procedendo ad un semplice elenco di coseaccaso che serve più a me che a voi, ché ormai sono anziana e mi fa bene scrivermi le cose.

  • Sono in ferie dal lunedì prima di Pasqua e tornerò al lavoro solo il prossimo lunedì. Due settimane tonde tonde di nullafacenza (quasi) totale che, in parte, mi sono state imposte per questioni logistiche.
    Se vi state chiedendo se io stia impiegando questo tempo prezioso per portare a termine tutti i progetti a cui non posso dedicarmi quando lavoro… ah! Siete proprio degli ingenui! Naturalmente spreco buona parte delle mie giornate a recuperare i settecento episodi arretrati delle serie TV che seguo, bevendo litri di tè. In pigiama.
  • Ad essere onesta, ho iniziato il lungo periodo OFF con un doveroso quanto necessario ritorno nella mia amata, unica e sola London.
    Pochi giorni e molte emozioni contrastanti, ma alla fine non mi sono gettata nel Tamigi, come invece temevo andasse a finire, per cui posso considerarlo un successo.
    Ho avuto momenti di disperazione totale, lo ammetto, ché Londonsicklastsforevah, lo sappiamo tutti, ma mi sono consolata ingozzandomi con i magici rainbow bagels e la vista dal 32esimo piano dello Shard mi ha spento i pensieri per un bel po’ (nonostante le occhiatacce delle cameriere dell’Aqua che mi hanno sicuramente scambiata per una barbona, quando ho ordinato la cosa meno costosa di tutto il menu, quasi piangendo lo stesso per il prezzo.).
    Sono giunta alle ennesime conclusioni sulla mia benedetta vita, ho spinto via le lacrime sul sedile di un bus e sono tornata qui sana e salva, dopo diciottomila ore di viaggio a causa di vari imprevisti.
    Bene così, per ora.
  • Ho deciso che i miei capelli devono tornare arancioni. Ma potrei cambiare ancora idea, prima di quel giorno.
  • La prossima settimana inizierò a fare qualche presentazione di “Una specie di ragazza”, il che va un po’ contro le mie convinzioni. Un pittore espone i propri quadri, un musicista suona i propri pezzi… perché diavolo uno scrittore deve PARLARE dei suoi libri? E’ una cosa che mi infastidisce enormemente, mi chiedo perché alla gente debba fregare qualcosa di ciò che ho da dire. Leggete il libro, punto.
    Eppure è la sporca legge del marketing che me lo impone. Ossia, la gente è troppo pigra per cliccare su “aggiungi al carrello” su un qualunque store online e se non gli preparo un tavolino con su i libri e dietro la mia faccia imbarazzata non comprerà mai il romanzo ma continuerà a chiedermi imperterrita “Ma lo voglio leggereee! Come faccio??”.
  • La cosa positiva, in tutto ciò, è che ne farò anche una a Roma. Di presentazione, intendo. A fine maggio. Insomma, Nana e Debh (anche se ormai fai finta di non essere più romana), ESSETECI please, ché in realtà è tutta una scusa per (ri)vedere ggente!
  • A proposito di vedere ggente, dopo mirabolanti disavventure, tempeste di neve, epidemie mortali e sfighe di varia natura, HO INCONTRATO FIRESIDECHATS nella ridente Torino e lo posso dimostrare! Egli esiste, nonostante io non ci credessi molto. Ho le prove fotografiche (che userò per ricattarlo da qui all’eternità). Sono cose belle, anche se è un po’ snob col caffè. ma nessuno è perfetto.
  • Per la prima volta nella Storia delle Pasquette, ho trascorso una Pasquetta davvero figa. Nonostante la dirompente Primavera piemontese si sia manifestata in tutto il suo grigio splendore, minacciando di mandare tutto all’aria fino all’ultimo minuto. Insieme ad una decina di persone (mia band, band di M. e rispettivi consorti) ho messo su un palco improvvisato nel “giardino” (le virgolette sono d’obbligo, ve lo assicuro. E’ più un mezzo bosco.) della casetta di campagna dei genitori di M., in mezzo al nulla (un luogo che su google maps non esiste, per intenderci. Perfetto covo per un criminale.). Abbiamo montato una batteria, sparso qualche amplificatore, casse audio e microfoni e poi via al casino, per tutto il giorno, senza dar fastidio ad anima viva, essendo tra i campi.
    Poteva essere l’inizio di un brutto film horror, mi aspettavo che qualcuno andasse a fare pipì tra gli alberi per non tornare mai più, o che dei ghiri zombie ci facessero a pezzi, ma invece niente, solo tante cose buone da mangiare (che sto ancora pagando a caro prezzo, essendo marcia dentro.) e un sacco di musica, compresa una cover di Ricky Martin. Sì, avete letto bene.
  • Comunque la mia nuova band (r)esiste ancora, abbiamo qualche pezzo nostro e prima o poi spero di riuscire a suonare di nuovo in giro, perché è l’unico contesto in cui io riesca a divertirmi senza vergogna pur essendo al centro dell’attenzione e, insomma, non è roba da poco per una che si fa problemi anche a starnutire in pubblico.
  • Ho ricevuto 14 libri in regalo, tra Natale e compleanno, e gli unici 2 che mi siano piaciuti davvero sono quelli che non facevano parte della mia wishlist. Inizio a dubitare della mia stessa conoscenza dei miei gusti, a questo punto. M., in compenso, sembra conoscermi benissimo e non sbaglia un colpo. (Però dice anche che, forse, sono io il problema, e non i libri. Ché magari sono in un periodo NO, libristicamente – parola che esiste perché lo dico io – parlando e quindi qualunque libro mi sembra un po’ meh.)
  • Sono povera e la cosa mi disturba parecchio. Ho gusti costosi, io!

Voi come ve la passate? Leggerei volentieri i vostri elenchi!

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Duemilaquindicidiamountaglio.

Domani finirà questo anno difficilissimo ed io sono ancora in piedi, ancora intera, più serena che mai.
Consapevole di ciò che ho in mano, di ciò che mi è scivolato tra le dita e soprattutto di ciò che con loro posso costruire, inventare, curare, scrivere.
E’ solo una data, un tramonto che scurissimo inghiotte l’ultimo ennesimo giorno, un’alba gelida che assonnata ne sputa fuori un altro, solo un altro, uguale a quello prima eppure unico, irripetibile.
Le mie mani, solo le mie mani, possono trasformarlo in un inizio indimenticabile o nel più nero dei fallimenti, o lasciarlo passare e basta, come uno qualunque, uno dei tanti.
Il punto è che adesso lo so, non l’ho mai saputo e capito bene come ora, come dopo questi 365 giorni a cui domani appiccicherò un’etichetta simbolica che dice solo “FINE”.

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Cos’ho imparato nelle ultime settimane.

Che se nel 2009 già scrivevo certe canzoni, forse avrei dovuto anche ascoltarle, ascoltarmi, farle ascoltare. Perché qualcosa vorrà pur dire, se le suono adesso trovandole incredibilmente attuali.

Che non basta un esercito di SignorNo a togliermi la gioia pura di questo periodo dell’anno, perché è mia, è me, è il riflesso luminoso ed esagerato di quella Speranza che mai lascerò andare. Mai. Al diavolo il resto.

Che i dolci vegani sembrano semplicissimi da realizzare, sulla carta, ma magari un po’ di pratica in più non mi farebbe male!

Che forse sono pronta per dire addio ai capelli rossi, almeno mentalmente. Il che la dice lunga su tante cose.

Che l’Amore – qualunque cosa significhi – è sempre, da sempre, comunque, il più importante dei miei valori, il più alto dei miei obiettivi.
Anche l’Amore per me stessa, finalmente.

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Di lunedì.

Quelle giornate in cui aspetti solo di tornare a casa per scoppiare finalmente a piangere senza nasconderti dietro ai capelli, con la rabbia dei fazzoletti che non sono mai in borsa quando dovrebbero e i pensieri che ronzano e ronzano e ronzano dentro alla scatola pesante che ti trascini sulle spalle.
Il quarto compleanno di questo blog che capita in un giorno così è un po’ il colmo, ché qui ci ho versato più risate che lacrime, negli anni.
Ma non oggi.
Oggi è un po’ più difficile e non voglio farci niente.
Me lo merito un giorno di riposo dalla consapevolezza di poter sopravvivere a tutto, di avere a portata di mano la forza e la capacità di essere felice, o tristissima, o arrabbiata, o serena.
Non ne parlo (quasi) mai perché non mi piace, mi annoia, mi fa sentire pesante, ma non sto bene.
Non ne parlo, ma non significa che vada meglio, o che sia meno reale.

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Se solo mi volessi di più.

A volte vorrei non avere alcun legame, nessun rapporto più profondo di quello che si può avere con chi incontri per caso in un pub una sera soltanto e poi mai più.

Vorrei essere una comparsa nelle vite degli altri e l’unico personaggio a colori nella mia.

A volte vorrei non avere un posto in cui voler tornare, così non dovrei più fermarmi a svuotarmi le tasche scoprendo che dentro non sono rimasti che ricordi.

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Interrogazione a sorpresa.

Mi rivedi dopo circa dieci anni e non mi chiedi come sto, come mai sono qui, che ne è stato delle amicizie comuni che un tempo ci univano. Mi scocchi un sorriso un po’ sbilenco e mi chiedi solo se scrivo ancora. Senza preamboli,non un convenevole, mi lanci solo quel “scrivi ancora?” , pretendendo io lo afferri al volo senza barcollare. Resto in equilibrio, ma anche in silenzio. Non so la risposta, non ho studiato, tutto mi aspettavo da questa giornata ma non una domanda così. Non da te, soprattutto. Tu che mi sedevi di fronte, dieci anni fa, sciorinando con leggerezza i motivi per cui avrei dovuto prendere quel manoscritto, rilegato con tutto l’amore di cui solo a diciassette anni si è capaci, e farlo a pezzi, per renderlo più plausibile.

Plausibile.

Avrei voluto chiederti come si possa chiedere ad una storia d’amore di essere plausibile, ma non l’ho fatto. Neppure allora sapevo la risposta, anche allora ho lasciato cadere sul tavolo un silenzio imbarazzato. Lo stesso tavolo dietro al quale te ne stai stasera, dopo tutti questi anni. Uguale a sempre.

“Mmh… no.”, dico alla fine. Per evitare ogni altra domanda, soprattutto. Aggiungi “Peccato. C’era del talento.”, e forse un po’ di stizza la provo. Perché in fondo che ne sai di me, che ne hai mai saputo, poi. Porto i toni su frivolezze collaudate e tu no, non vuoi, ti va di riprovarci. “Magari hai qualcosa nel cassetto,non si può mai sapere,non ci credo che hai smesso”. Credici, invece. Ho smesso eccome, di darmi in pasto a chi tratta le parole come merce. Lo penso soltanto, continuo a sorridere ma sempre di meno, sempre più piano, ormai lontanissima.

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“I am a revenant”.

A volte vorrei dimenticare quello che so. Un colpo di gomma e quella decisione non sarebbe altro che un’ombra grigiastra sul foglio. Non saprei più di non avere scadenze, mi affannerei a vivere gli istanti con la fretta di chi non vuole sprecare neppure uno sguardo, conserverei tutto.

Vorrei ricordare la sensazione vivida che ad un certo punto mi ha spinta a dire basta. Sembra così fumosa, adesso, così piccola e trascurabile in confronto al resto. Se la sentissi di nuovo, una volta al giorno, magari appena sveglia, potrei scrollarmi di dosso questo senso di errore fatale che a volte mi insegue.

Affondo le scarpe in un metro di neve, quando chiudo gli occhi. Annuso il silenzio e mi canta certezze. Ad occhi chiusi si sceglie meglio, non si può sbagliare, non ci sono distrazioni. Ho una presa sicura a non farmi cadere. La mia.

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