“There’s no such thing as good grief…”

Arriva così, in onde scomposte, il dolore.
Accendi la TV distrattamente e c’è quel certo film; sorridi, prendi il telefono senza pensare, quasi inizi anche a scrivere un messaggio. Poi ricordi, realizzi, avverti il colpo della realtà che torna.
Si rompono le dighe che hai messo su, faticosamente, per tutto il giorno, ché la vita va avanti, le cose vanno fatte.
Tornano a galla gli odori, i dettagli minuscoli che raccontano un mondo intero, le voci roche di ninna nanna sussurrata con parole imprecise.
La sua grafia appuntita, precisa, sottile; il fazzoletto di stoffa ripiegato con cura; la macchina fotografica sempre al collo e le pellicole conservate in piccoli cilindri di plastica dal tappo grigio; poi le copie stampate per tutti, nessuno escluso, ché i ricordi non hanno prezzo, e lui li regalava col sorriso, dopo averli creati e fermati per sempre.
Le storie raccontate partendo da lontanissimo, con troppi particolari; i numeri della schedina che erano sempre le nostre date di nascita, che se ci penso è bellissimo: noi, la sua fortuna.
Le sue mani grandi sulle mie di bambina per insegnarmi ad insaponarle bene prima di sederci a tavola, ai soliti posti, i soliti portatovaglioli colorati, le solite lamentele.
I libri, ovunque, tantissimi, letti in spiaggia, sul divano, al parco, alle poste, e tenuti come nuovi, con le copertine protette da carta di giornale e le sue iniziali sulla prima pagina.
Quanto ha amato i suoi libri, quanto ha fatto male vederne uno iniziato e basta, rimasto in sospeso di colpo.
La risata inconfondibile; le bretelle e i puntuali “mi aiuti?”; gli spaghetti al burro e i cornetti caldi a mezzanotte; il giro di telefonate per gli auguri a tutti, nei giorni di festa.
I battibecchi con lei, le prese in giro, la poca pazienza e l’amore sincero, semplice, imperfetto, coraggioso.
L’abitudine di festeggiare tutte le ricorrenze, anche quelle piccole, conservando i bigliettini in cartelline ordinate; i messaggi lunghi e articolati come lettere, per dire le cose più semplici; la paura per i nostri malanni, tutti, anche il singolo colpo di tosse per un sorso d’acqua di traverso.
Quel foglietto ripiegato in una tasca del portafogli: “Libri scritti da Ve”, e poi sotto l’elenco, breve, ma con qualche trattino libero in più, come in attesa.
E allora scrivo. Che altro potrei fare? Scrivo e ricordo, per restare a galla tra le onde violente in mezzo a questo mare profondissimo di tristezza che resta.

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Temporali a domicilio.

Se c’è una cosa che mi ha regalato Torino è la pioggia.
Di quella fitta, che quasi non ci vedi attraverso, che incolla i vestiti alla pelle e rende i passi pesanti e i pensieri più limpidi.
In questo cielo mai sgombro, mi ritrovo a inventare contorni di storie impossibili; eppure restano, appese ad altezza di mano, proprio la mia, così piccola e incerta.
Se c’è una cosa che mi ha regalato Torino è la risata leggera.
Quella che ti fa mordere le frasi nel mezzo e tira dentro anche chi ascolta.
Ci sono parole che danzano all’unisono, incastri semplici che potrebbero andare a finire malissimo, o peggio, non finire mai.
Ci giriamo attorno da quanto, ormai? Convinti che basti non chiamare le cose con un certo nome, per tenerle a bada e non farle traboccare dalla tazza piccola e colorata in cui ci illudiamo di poterle contenere.
Ridiamo e ridiamo, facendo finta di non sentire, di non sapere, di non volere, in questa casa già allagata per metà.

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“…I’m falling, so I’m taking my time on my ride…”

Ma tu pensa ricominciare da zero.
Che non sai come pronunciare certe parole, non hai le coordinate per evitare i dolori, non sai riconoscere quel preciso odore tra tutti quelli che abitano l’armadio.
Ma dove la trovi la voglia di? Chi te la fa ricrescere? Che poi è una cosa a tempo, tipo abbonamento, o si esaurisce con gli anni, un cuscino freddo alla volta?
Non lo so mica più, sai, e magari non l’ho saputo mai, ma sono incredibilmente brava a fingere, un’attrice espertissima, sorriso e sguardo deciso sempre pronti in tasca.
Perché le chiedi a me, certe cose? Perché le chiedo a me io stessa, del resto? Ma ti sembro reale o capace o affidabile?
Ce l’hai presente quel momento in cui ti ricordi di aver dimenticato l’ombrello o le cuffie o quel libro che avevi promesso di prestare a qualcuno, ma ormai hai fatto già troppa strada e sei già troppo in ritardo e allora realizzi che puoi solo andare avanti e tenerti addosso la sensazione fastidiosa di non aver prestato abbastanza attenzione, accettandone le conseguenze?
Quel preciso momento della caduta, quello in cui ti rendi conto sul serio di non poter fare altro che arrenderti alla gravità. Guardare in faccia l’irrimediabile. Ce l’hai presente?
Ecco, quel momento lì, proprio quello, per me è adesso.

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Ma tu come stai?

I passi si inseguono l’un l’altro senza esitazione; lo sguardo distratto, poggiato su niente, figure indistinte, passanti fugaci.
Dev’essere questo, sentirsi a Casa, mi dico.
Che sai dove andare anche col sole che ti ferisce gli occhi e le mani occupate a tracciare sciocche richieste d’aiuto sul profilo di plastica del mondo.
A volte mi fermo a spiare il mio riflesso in una vetrina, incerta, sorpresa di fronte alle mie espressioni nascoste per metà. Mi osservo da vicino e non capisco quando, né come, né perché io sia diventata quella persona che di rimando mi guarda serissima.
Ma chi è? Chi sono? Tu cosa vedi, quando mi guardi?
Ma poi, mi guardi? Mi vedi?
Passo dopo passo dopo passo, vado e torno, senza quasi più fatica, senza un’ombra di fretta.
Mi domando DOVE, mi rispondo FINO A QUANDO.

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Che c’è?

Che ti pare di essere seduta su questa sedia da anni e invece è a malapena un’ora.

Che puoi muoverti anche al buio e non andrai a sbattere contro spigoli inaspettati.

Che i rumori non sono poi così forti e le voci alla fine sanno regolarsi senza sforzo fino a spegnersi.

Che ci sono confini sottilissimi tra abitudini e rituali e quando si confondono diventano familiarità ed è un casino, ma fa bene alla pelle, la scalda più di questo cazzo di sole ostinato.

Che poi lo sapevi già, ma non ti annoia, non ti lamenti.

Che se lo dici ad alta voce non succede niente di male, e non è cosa da poco per chi ha passato mezza vita ad imporsi silenzio.

Che adesso basta, poi ci penserò, sempre che al poi io ci arrivi e non scappi oltre ancor prima di.

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Rabbit hole.

Ti guardo dritto negli occhi e te lo dico così, senza neppure un suono, sfidando i minuti contati, la folla, il resto che imbrunisce.
E lo capisci subito, ti fermi e vacilli, c’è troppo rumore.
Basterebbe un ombrello da condividere contro il pomeriggio che si schianta ridendo; un letto di fortuna un po’ sbilenco; formule magiche da recitare in coro, di quelle che non puoi fingere se non le conosci a memoria.
Mi sfiori appena, un istante soltanto, per non cadere nel mio labirinto, e mi perdi.
Mi basta questo per svanire in un soffio distratto, una nuvola azzurra che nascondo negli occhi travestendola da sorriso.
Non mi trovi più.

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“I had a dream I got everything I wanted. Not what you think, and if I’m being honest, it might have been a nightmare…”

In fondo che cosa ti aspettavi?
Le tazze sporche di caffè, addormentate nel lavello? I piedi freddi sotto al plaid? I segreti stropicciati?
Roba da prima, da wow, mica da tutti.
Ma poi tu ti fidi davvero, ancora, dei tuoi brividi? Dopo tutte le volte che hanno scambiato la paura per vento d’Inverno?
Non è colpa di nessuno, se dopo tutti quei chilometri ci ritroviamo di nuovo al punto di partenza, identici a tutte le altre volte, con il sorriso forzato di chi racconta a sé stesso che se lo aspettava, che va bene così.
È che camminavamo su strade panoramiche che in realtà erano circuiti, e prima o poi avremmo dovuto capire che la fine era già decisa dall’inizio.

Ma che pretendevi?
La soluzione? La svolta semplice? Il riposo senza puntare la sveglia?
Come se ne fossi in grado, poi. Come se lo volessi sul serio, o sapessi gestirlo.
Non c’è ascolto, figuriamoci comprensione. Continui ad aggiungere strati colorati per confondere e nascondere e proteggere la tua pelle bianchissima dalle dita sporche con cui prova ad agguantarti il resto.
E lo sai che così ti perdi anche le carezze, i lividi, le impronte.

Ma in fondo che immaginavi?
La resa equa? I piani ben riusciti? Una finestra con vista sul finalmente?
Roba da innamorati, da matti, da non adesso e forse mai più.

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“…Are you alright? Cause I’m not okay…”

Sarà che finalmente piove, dopo giorni di afa anacronistica.

Sarà che c’è una tazza di tè a sciogliermi il broncio e non mi va proprio giù che sia così facile, non è un buon segno.

Sarà che i capelli stanno diventando più scuri, le giornate più corte, gli incubi più affollati.

E quindi mi sento chiedere “come stai?” e rispondo raccontando cosa faccio, o dove sono, o qualunque cosa purché non sia la verità, ché non mi va di mentire, a chi domanda e a me stessa.

Non lo so mica, come sto. Non lo capisco quasi mai, ultimamente. Eppure mi ascolto, mi guardo, mi faccio compagnia. Ma non basta, in giornate così.

Sarà che ho perso qualcosa. Quasi tutto. Il futuro a certe tinte, di sicuro. Il passato come l’ho sognato. Ho perso canzoni, modi di dire, colori, stanze, e almeno un milione di parole.

E ho perso il mio riflesso.

Continuo a cercarlo, lì dove dovrebbe essere, dove l’ho sempre tenuto, anche se in quel cassetto ho già controllato. E mi arrabbio e mi ostino e mi dico che deve esserci, deve.

Non so dove altro cercare, e allora scrivo e canto e sorrido. Per niente e per tutto, senza pubblico, né strade facili, né piani B.

Ché la B sta per Basta, e allora anche no.

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“…I’m not lonely, I am free. But if I let you in you may never wanna leave…”

Oggi ho realizzato che forse non riceverò più libri di fiabe in regalo. Perlomeno per molto tempo, ecco. Che pensiero stupido, vero? Già.

Ho riordinato la libreria accanto al letto per colore, qualche giorno fa, perché l’OCD latente dovrà pur trovare sfogo da qualche parte, no? Il problema è che intanto ho comprato altri libri e la lista di quelli che vorrei si allunga ogni volta che metto piede in una certa stazione di una certa città, dopo il lavoro, e mi accorgo di quanto sia presto per il mio treno, così entro in una certa libreria e mi perdo.

Non cerco mai niente, ma trovo sempre qualcosa. Mi chiamano loro, lo giuro, senza un criterio preciso, e vorrei portarmeli tutti a casa, sistemarmeli intorno in pile altissime, come faceva Alaska Young, ma sì, boh, insomma, meglio non tirare in ballo le altre cose che abbiamo in comune, io e lei.

Che poi i libri di fiabe me li posso benissimo regalare da sola, l’ho sempre fatto. Posso fare tutto, da sola, ma è diverso. Non ho detto peggiore. Diverso.

Proprio in quella certa libreria di quella certa stazione in quella certa città, ieri ho incontrato qualcuno di inaspettato e nuovo, eppure talmente familiare da non sentire il bisogno di fare troppe domande, va bene così, facciamoci compagnia e basta. Almeno fino a domani, poi chissà.

Non è una parola bellissima “domani“? Sa di speranza, a tratti profuma di promessa. Diciamolo più spesso, come un augurio, magari funziona. A domani. Non suona bene?

Io, domani, sarò di nuovo tra quegli scaffali, ad una certa ora, in una certa libreria di una certa stazione di una certa città. Forse mi regalerò un libro di fiabe e dovrò trovargli un posto nell’arcobaleno di carta che mi sonnecchia accanto, mentre sogno.

Ci vediamo lì, poi chissà.

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Let’s go.

L’ultima volta che ho scritto qui era il 2018. Che, solo di recente, con l’aiuto di quella cosa bellissima e un po’ stronza che è il senno di poi, ho scoperto essere stato un anno veramente ricco di passi fondamentali ed esperienze magnifiche.

Ci tornerei, nel 2018, tutto sommato. Se non altro per dar retta alla me stessa che aveva avuto il coraggio e la forza di prendere una certa decisione e dirle di non cedere, di portarla avanti fino in fondo, ché aveva proprio ragione.

E invece.

So che non ero pronta, che non era ancora il momento, forse.

Che poi è sempre il forse che ci frega, no? Ci tiene appesi per i capelli, doloranti, in bilico, a metà tra la voglia di scoprire fino a che punto possa resistere la pelle prima di strapparsi e il bisogno di lasciar andare quel dolore, per tornare a camminare sulle proprie gambe.

È quello il guaio, l’eterno conflitto tra voglia e bisogno, ci avete mai fatto caso? Non coincidono quasi mai e chi lo decide quale dei due sia più importante?

È successo che tutto quello che è successo in questi anni lontana dal mio pezzetto di WordPress sia stato raccontato perfettamente da Hayley Williams nella sua “Dead Horse”. Ma non lo dico per dire, è un riassunto fedele, parola per parola, dai sogni ricorrenti ai capelli blu, ai sensi di colpa, al numero di anni in cui è andata avanti la situazione, all’affannarsi nel tentativo di far funzionare cose irrimediabilmente rotte.

Quindi non ne parlerò, ché l’ha già fatto lei al posto mio ed è tutto piuttosto chiaro, fanculo le metafore.

È poi successo che questo anno da film post-apocalittico di terz’ordine ha spazzato via ogni singolo castello di carta io abbia costruito, dal primo giorno (letteralmente. Happy birthday to me.) e per tutti quelli successivi, almeno fino a qui. E capite bene che un po’ mi abbia fatto passare la voglia di provarci ancora, eh, ma (purtroppo o per fortuna, non mi è ancora chiaro) non riesco a far tacere quella vocina minuscola che, in una stanza ben protetta dentro la mia testa, ancora continua a cantare.

E se c’è una cosa che ho imparato su di me è che “when I got the music I got a place to go”, quindi… Let’s go, I guess.

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